ESPERIENZA E VITA
Caro Diario: la mia esperienza in America
29 agosto 2017
Caro diario, scusa se durante questa settimana non ho avuto modo di scriverti ma sai, in questi giorni sono stato occupato a fare altro qui a Montgomery Village.
Tutto deve essere pronto per il viaggio di ritorno….. piegare i vestiti, sistemare i bagagli, raccogliere tutto ciò che ho comprato durante la mia permanenza e pensare a come farlo entrare in valigia. Oggi infatti, come avrai capito, è il mio ultimo giorno qui in America; dopo quasi tre mesi è arrivato il momento di tornare in Italia.
Devo ammetterlo mi mancherà essere qui, passeggiare per i quartieri ben curati, mangiare le uova e le polpette di granchio a colazione, attraversare con la macchina le strade larghe e colorate dalle bandiere a stelle e strisce, girare per i negozi con la zia ed il cuginetto Luca…Vivere in questi luoghi e sentirsi come dentro un film.
Non posso nasconderti però quanto, durante questo lungo periodo, mi sia mancata la mia famiglia e la mia terra…. la Sicilia. Solo stando a migliaia di chilometri di distanza ho potuto ammirare il suo fascino, la sua bellezza, apprezzando incondizionatamente tutto ciò che offre: il profumo del mare, il sole cocente, le stradine piccole e strette che sembrano uscite dal passato, i giardini colorati dalle piante di limoni e di arance, l’Etna che sovrasta il paesaggio, le nostre tradizioni e la nostra cultura…. ma soprattutto mi è mancato il nostro cibo. Credo che questa strana sensazione di mancanza della propria “casa” prima o poi si riveli a tutti quelli che vivono lontano. Solo in quel momento anche il dettaglio che consideravi più insignificante diventa unico ed impareggiabile. Sicuramente questo viaggio è stato per me un’esperienza straordinaria e sono sicuro che quando tornerò a casa sarò una persona diversa, più consapevole di quello che mi circonda, con un modo di essere e di pensare arricchito da tutto ciò che ho fatto qui.
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Ho conosciuto tante persone e fatte nuove amicizie, ho visitato nuove città e vissuto in posti nuovi, ho provato un diverso stile di vita ma soprattutto ho potuto “confrontarmi” con culture diverse aumentando la mia voglia di conoscere il mondo. Per concludere, caro diario, vorrei augurare a tutti la possibilità di poter fare un viaggio come il mio per poter provare nuove emozioni e poter maggiormente apprezzare la propria cultura.
-Matteo Grasso
La mia prima esperienza Americana
Sono Sara Piccirillo, ho 15 anni e scrivo da Washington DC. Sono qua per il lavoro di mio padre.
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Sono arrivata l’8 dicembre 2017, ero molto emozionata dal fatto di essere negli Stati Uniti. Molti descrivono questa nazione, ingigantendo tutto per screditarlo, ma io non ho mai creduto niente, volevo essere io a descrivere gli “States”, solo dopo averci vissuto. Era la mia prima volta in questo paese così invidiato ma allo stesso tempo odiato, ero sia molto felice di scoprire questa nuova realtà sia molto spaventata di conoscere persone nuove che non parlassero la mia stessa lingua, di non integrarmi, ma anche di non essere all’altezza di questa esperienza. Nonostante ciò avevo l’adrenalina come quando ti trovi sulle montagne russe. Appena sono arrivata non vedevo l’ora di iniziare e di conoscere persone nuove, viaggiare, di vivere questa avventura, ma soprattutto d’imparare l'inglese come i miei compagni di scuola.
Foto di: orchardviewcolor.com
Da quando sono qua, non ho mai pensato, neanche una volta, di voler tornare in Italia, nonostante mi manchino tutte le mie amicizie e tutti i miei parenti; penso che questa sia un’esperienza incredibile e che soprattutto non tutti possono fare, e quindi mi sento di essere anche molto fortunata di essere qua.
Quando sono arrivata a scuola il primo giorno, mi hanno fatto fare un giro per mostrarmi le posizioni delle classi, ma alla fine non mi ricordavo niente, ero talmente felice che stavo pensando già alla mia prima ora di lezione, volevo cominciare in quel preciso istante. I ragazzi e le ragazze sono stati tutti molto simpatici e disponibili, infatti a chiunque chiedessi mi mostravano la classe e mi accompagnavano. Sebbene sia arrivata da pochissimi giorni ho già stretto amicizia con qualcuno di loro, molte volte mangiamo anche insieme durante la ricreazione.
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Per adesso, sono molto contenta di essere qua e di chi ho incontrato. Fortunatamente non ho ancora avuto tanti problemi con la lingua, mi sono sempre fatta capire senza troppi sforzi. L’unica cosa che spero che accada in fretta è di imparare il prima possibile l’inglese.
-Sara Piccirillo
Studiare in Olanda
Cari lettori del Giornalino Italia,
Io mi chiamo Jacopo e a Settembre ho iniziato la mia avventura all’universitá. Volevo utilizzare
questa occasione per parlarvi di questa esperienza.
Io studio all’univeristá di Rotterdam in Olanda, mi sto diplomando in Liberal Arts and Science.
Molti di voi forse non conoscono questa materia. Infatti non lo è, ma è un mix di materie
scientifiche. Infatti il primo anno facciamo tante diverse materie fra economia, biologia,
psicologia, sociologia, matematica, filosofia e tante altre. Peró poi il secondo e terzo anno
bisogna scegliere quale materia fare. Io infatti voglio scegliere psicologia perché mi interessa
tantissimo conoscere come il cervello funziona e come mai noi ci comportiamo diversamente
nelle stesse situazioni, io lo trovo affascinante.
Foto da: archello.com​
Qui in Olanda il 95% della popolazione parla inglese, quindi anche all’universitá tutti parlano in
Inglese e tutte le lezioni sono in inglese. Quindi tutti i giorni quando vado in giro in cittá parlo
inglese e anche con i miei amici. Peró un po’ di italiano lo parlo ancora perché ho 6 compagne
di universitá che sono italiane quindi ogni volta che ci vediamo riusciamo a utilizzare ancora
l’italiano per fortuna. Nel mio anno siamo in 206 e siamo di tutti i paesi. Allora la maggior parte
sono Olandesi ovviamente, peró ci sono anche tanti Europei ma anche al di fuori dell’Europa.
Per esempio ci sono delle persone provenienti dallo Zimbabwe in Africa ma anche dal Malawi.
Addirittura una persona da Aruba. Ci sono tanti che provengono dal Centro e Sud America, per
esempio Colombia, Nicaragua, Paraguay, Cile e anche Messico. Ci sono anche degli
Australiani, Giapponesi e Cinesi. Quindi come potete vedere ci sono persone provenienti da tutti
i tipi di paesi, quindi quest’universitá è molto internazionale.
Una curiositá sul palazzo dell’universitá è che nel 1944 Rotterdam è stata distrutta dai Nazisti a
causa del grande commercio proveniente dal porto piú grande d’Europa. Rotterdam fu rasa al
suolo. Solo 4 palazzi sono rimasti in piedi. Il primo è il comune, poi l’ufficio postale e un hotel e
poi c’è la nostra universitá che è un palazzo bello dal fuori ma all’interno è stupendo. Gli
studenti del primo anno devono restare in un palazzo della scuola. La scuola ha una specie di
residence proprio nel centro di Rotterdam dove ci sono 215 stanze e dove ciascuno di noi ha la
propria stanza. A me piace tantissimo stare lí perché sono sempre in compagnia dei miei amici
e se a qualcuno serve qualcosa c’è sempre qualcuno pronto ad aiutare.
Comunque per voi lettori che state per andare all’universitá non abbiate paura perché all’inizio
non si conosce nessuno, non si conosce il posto e questo è tutto normale. È giusto avere paura,
significa che siete pronti per affrontare questa nuova esperienza, peró appena ho conosciuto
delle persone e sono andato alle lezioni la paura è scomparsa in men che non si dica.
Ovviamente non è facile perché si è da soli, lontani dalla famiglia e questa è la parte peggiore
ma è anche il segno che stiamo crescendo e siamo dei piccoli adulti che sinceramente è una
cosa fantastica. Stiamo ancora crescendo ma andare all’universitá è un’enorme crescita. Quindi
cari lettori che avete paura di andare e iniziare questa nuova avventura, vi dico una cosa; la
paura è normalissima e tenetevela sennó non vi goderete questa esperienza al 110% e poi
vedrete che appena iniziate sará tutto completamente diverso da come vi aspettate.
In bocca al lupo per tutto.
Un abbraccio,
Jacopo
Il Tuffo
Mi succede spesso di dover riflettere prima di fare qualcosa, perché molte volte sono impulsivo.
Ogni tanto ripenso a questo episodio e mi chiedo come sia stato possibile che io abbia fatto quello che ho fatto.
Avrei dovuto impedirlo. Avrei potuto impedirlo.
Ero in Liguria, un paio di anni fa, in un paesino vicino a Sestri Levante.
Io e la mia famiglia ci andiamo ogni anno perché è un paese veramente pieno di sorprese.
Ogni anno scopriamo cose nuove e inaspettate, è veramente bello andare lì.
Quell’anno, però, non è stato poi così bello.
Era un giorno come gli altri, ero sul divano della casa che affittiamo tutti gli anni e stavo aspettando i miei amici.
Lì ho molti amici e conosco praticamente tutti, anche a causa della grandezza limitata del paese. Ma non sto sempre con tutti, anzi, quasi mai. In realtà, sto sempre con lo stesso gruppo.
Quel giorno avrebbero dovuto citofonarmi alle 10.00 e io sarei dovuto scendere per andare in spiaggia.
In quel momento, avrei dovuto fare i compiti, ma non li volevo fare: volevo solo andare a divertirmi con i miei amici.
Mia mamma insisteva molto e mi urlava dalla cucina che avrei dovuto studiare, ma io non la ascoltavo.
Dentro di me, però, mi sentivo un po’ in colpa; non per il fatto che non studiavo, ma perché non ascoltavo mia mamma.
Ma in quel momento la mia voglia di divertirmi aveva preso il sopravvento.
Ho sbagliato, lo ammetto. Forse, se avessi fatto i compiti non sarebbe successo quello che è successo. Ma questo non lo potrò mai sapere.
Il mio ignorare la mamma fu interrotto dal citofono, che squillò.
La nostra discussione si fermò per un momento. Guardai la porta della cucina, aspettando che la mamma uscisse con l’intento di rispondere al citofono.
Non uscì. Era troppo impegnata a fare quello che stava facendo, probabilmente.
Dunque mi alzai, sospirando, e andai a rispondere io al citofono.
Erano i miei amici. Finalmente.
Io mi ero già messo il costume, e senza neanche salutare la mamma, uscii. Da lì fino a quando non tornai a casa ebbi il rimorso di non aver pronunciato il saluto, una cosa fondamentalmente semplice, ma per il contesto in cui ero era più complicato di quanto potessi immaginare.
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Richiusi la porta alle mie spalle, come per porre fine alla discussione, e scesi le scale.
Raggiunsi i miei amici e cambiai completamente faccia: da una faccia triste, presuntuosa e insicura, ad una faccia felice, fremente ed entusiasta per la giornata che stavo per passare.
Andammo in spiaggia e solo in quel momento mi accorsi che nel gruppo mancava Paolo, il più intelligente, diciamo “la mente del gruppo”, che noi prendevamo sempre in giro ma sotto sotto sapevamo tutti che senza di lui non facevamo mai nulla di buono.
In spiaggia faceva molto caldo.
Rimanemmo in acqua per tutto il tempo, fino a quando ci venne un certo languorino e andammo a mangiare.
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C’era un’ampia scelta di ristoranti e bar, in quel paesino, a dispetto della sua grandezza, ma noi andavamo a mangiare sempre nello stesso posto, perché il proprietario del bar era mio amico e ci faceva sempre uno sconto.
Aspettando di digerire siamo stati per qualche ora sotto l’ombrellone a giocare a poker: tra le varie scale e i vari bluff ho vinto io, come sempre d’altronde. Smesso di giocare, ci siamo messi a chiacchierare un po’, ed è venuto fuori che quella giornata aveva bisogno di una svolta, di un cambio.
Dopo numerose idee, la più gettonata è stata di andare al Massiccio.
Il Massiccio era un grosso scoglio ben distaccato dalla costa, dal quale era divertente tuffarsi. Dato che era decisamente distante dalla costa, si poteva raggiungere solamente o con una canoa, che però noi non avevamo, o con il pedalò, che noi affittammo.
In realtà non potevamo salire sul pedalò senza un maggiorenne, però il proprietario della compagnia era mio amico, e quindi ci fece salire senza problemi.
Da piccoli abbiamo sempre sognato di buttarci dal Massiccio, ma le nostre mamme ce lo hanno sempre impedito e noi ci eravamo ormai rassegnati.
Pensammo che ormai eravamo grandi e maturi per tuffarci, ma ci sbagliavamo. Salimmo sul pedalò e tutti insieme, a turno, pedalammo fino al grande scoglio e poi ci arrampicammo uno alla volta.
Una volta in cima ci guardammo a vicenda.
Riuscivo a intravedere negli occhi dei miei amici una modesta paura, che cercavano invano di mascherare.
Vi erano due punti principali da cui tuffarsi: il primo, un po’ più basso, e il secondo decisamente più alto.
Da questi punti vedevamo sempre le altre persone tuffarsi, quindi pensammo che non ci fosse pericolo.
Il primo a buttarsi fu Marco, che si tuffò dal punto più basso, circa quattro metri, secondo lui.
Poi si tuffarono Giò e Ale, dal punto di più alto: otto metri, dissero loro.
Sul grande Massiccio eravamo rimasti solo io e Edo, il quale non si avviò verso uno dei due punti principali, ma si arrampicò verso un punto ancora più alto, a occhio undici metri. Io lo seguii, sbagliando.
In quel punto non avevamo ancora fatto ricognizione, quindi non sapevamo cosa ci
fosse sotto il livello dell’acqua.
Ma lo avremmo scoperto presto.
Mi sporsi per vedere cosa ci fosse sotto e quanto fosse profonda l’acqua, ma a causa dell’altezza non riuscii a vedere nulla.
Gli altri ci stavano aspettando in acqua, ci gridavano di scendere.
Non sapevo cosa fare, e forse è proprio per questo che mi tuffai.
Mentre precipitavo, il cuore mi batteva all’impazzata.
In volo, ebbi il tempo di girarmi e osservare le facce dei miei amici: sorridenti, divertite. Io avevo paura, però.
Pensai a mia madre, pensai a quel saluto che forse sarebbe stato il più grande rimorso di tutta la mia vita. Chiusi gli occhi. Sospirai. Finalmente impattai con l’acqua. Dopo l’impatto andai ancora più in profondità, a causa della velocità. Il fondo sabbioso fermò la mia caduta. Risalii in superficie.
Ero intero. Spaventato, ma intero.
Nuotai, ancora un po’ confuso, fino ai miei amici.
Appena mi girai verso di loro, mi accorsi che avevo accanto un enorme scoglio subacqueo.
Dato che era appena sotto il pelo dell’acqua, non si riusciva a vedere dal Massiccio.
Realizzai che tuffandomi ero andato pericolosamente vicino a quello scoglio.
Forse mi ero pure fatto qualche graffio.
Capii che magari Edo non sarebbe stato fortunato quanto lo ero stato io.
Al momento, l’importante era dirgli come stavano le cose.
Dirgli che non sapeva cosa stava facendo.
Mi girai verso di lui.
Lo osservai.
Non sapevo se fosse troppo tardi.
Gli urlai: “Fermo! Fermo!”.
Ora lo sapevo.
Era troppo tardi.
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-Michele Rotta